Cos’è la degenerazione discale?

La discopatia  degenerativa, o malattia degenerativa del disco, in genere si definisce  tale quando è sintomatica, cioè quando provoca mal di schiena. Degenerazione discale invece è un termine che  indica il processo biochimico di involuzione del disco.

Il disco intervertebrale è una struttura fibro-cartilaginea la cui funzione principale è quella di trasmettere e distribuire il carico meccanico tra i corpi vertebrali, mantenendo allo stesso tempo la flessibilità della colonna.

Il disco si differenzia da altri tessuti connettivi del corpo per il fatto che mostra alterazioni degenerative già in giovane età.

La maturazione dei dischi associata all’età, suggestiva per degenerazione, è stata osservata già dall’età di 11 anni e un diminuito apporto vascolare ai piatti vertebrali è stato segnalato già a partire dalla seconda decade di vita, con una prevalenza che aumenta con l’età.

La degenerazione discale (degenerazione dei dischi) porta anche a insufficienza strutturale e si associa comunemente con il mal di schiena cronico.

Il mal di schiena è uno dei sintomi più comuni della degenerazione discale, con una prevalenza tra 12% e 30% e con circa il 10% dei pazienti che svilupperanno mal di schiena cronico.

Il costo medico diretto del mal di schiena negli Stati Uniti ha raggiunto i 253 miliardi di dollari all’anno. A questo vanno aggiunti anche gli affetti sul benessere psicologico dei pazienti, con significativo aumento di stress, depressione e ansia dopo la comparsa del mal di schiena.

Il mal di schiena cronico costituisce un grave problema di salute a causa della natura debilitante della sintomatologia e dell’impatto socioeconomico.

Esiste una varietà di cause di dolore lombare e la degenerazione dei dischi (degenerazione discale) è solo una di queste.

Anatomia e funzione del disco intervertebrale

Il disco intervertebrale è situato tra i corpi vertebrali ed è formato da 3 strutture principali: i piatti cartilaginei, il nucleo polposo e l’anello fibroso.

Il nucleo polposo è composto da fibre di collagene di tipo II e di elastina immerse in un gel contenente aggrecani. La densità di carica costante nelle molecole di aggrecani del nucleo polposo genera un’elevata pressione osmotica, che contribuisce a mantenere altamente idratato il nucleo, aiuta a mantenere costante l’altezza del disco intervertebrale e distribuisce i carichi attraverso il nucleo e le fibre concentriche dell’anello fibroso.

L’anello fibroso è formato da una serie di lamelle concentriche, in numero variabile da 15 a 25, formate da fibre di collagene parallele tra loro, mentre tra una lamella e l’altra le fibre si dispongono perpendicolarmente, in modo da conferire all’anello un’elevata resistenza alla tensione.

La parte più esterna dell’anello contiene cellule sottili e allungate, simili ai fibroblasti, mentre le cellule più interne sono sferiche e appaiono simili ai condrociti, le cellule della cartilagine articolare. La funzione dell’anello fibroso è quella di contendere il nucleo polposo e di mantenere costante la pressione del nucleo sotto carico.

Il piatto cartilagineo è costituito da un sottile strato orizzontale di cartilagine ialina che nell’adulto non è vascolarizzata.

Nutrimento del disco intervertebrale

Alla nascita vi sono dei vasi sanguigni che attraversano i piatti cartilaginei, ma scompaiono entro i 5 anni di età. L’apporto di sangue al disco viene da 2 plessi capillari distinti. Il primo rifornisce la parte più esterna dell’anello fibroso e l’altro origina dai corpi vertebrali e termina alla giunzione fra osso e cartilagine.

Il disco intervertebrale è una struttura avascolare, con alcune parti del nucleo polposo che distano fino a 8 mm dall’apporto di sangue più vicino. La nutrizione è assicurata da un gradiente di diffusione di glucosio, ossigeno e altre macromolecole. Le cellule del nucleo polposo sono le più lontane dall’apporto vascolare, con conseguente bassa tensione di ossigeno e metabolismo anaerobio. Il microambiente del nucleo polposo ha una concentrazione di acido lattico più alta e un pH più basso delle altre parti del disco, fattore che può influenzare negativamente le funzioni cellulari.

Il normale invecchiamento del disco

Il disco va incontro a modificazioni correlate all’età più precocemente di molti altri tessuti, con alterazioni istomorfologiche e funzionali. Mentre i cambiamenti del disco correlati all’età sono normali, il processo della degenerazione discale costituisce una condizione patologica distinta che implica l’insufficienza strutturale e può essere accelerata dall’invecchiamento.

I piatti cartilaginei presentano una ridotta permeabilità e un ridotto apporto vascolare con l’avanzare dell’età, con conseguente alterazione del microambiente del disco che favorisce il catabolismo.

Il contenuto totale di proteoglicani del disco diminuisce con l’età, portando a un disco meno idratato, con conseguente alterazione delle proprietà meccaniche. Le fibre di collagene di tipo II vengono sostituite dalle fibre di collagene di tipo I nell’anello fibroso interno e nel nucleo polposo. Il nucleo inizia ad accumulare pigmento giallo, che lo rende meno distinguibile dall’anello fibroso.

Meccanismi della degenerazione discale

Eziologia

La degenerazione discale è il risultato di una complessa interazione tra fattori genetici e ambientali. La malattia degenerativa dei dischi è un processo che comprende una progressiva riduzione dell’apporto di nutrienti al disco e una serie di modificazioni della composizione della matrice extracellulare che porta ad un indebolimento del tessuto e altera il metabolismo cellulare. Si è visto che la diminuzione dell’apporto di nutrienti ha un impatto negativo sulla capacità del disco di mantenere la matrice extracellulare.

Nel disco degenerato l’apporto di nutrienti è alterato, con conseguente ridotta concentrazione di ossigeno e basso pH.

Anche la calcificazione dei piatti vertebrali porta ad una riduzione dell’apporto di sangue. La nutrizione inadeguata inibisce la capacità del disco di rispondere ad un aumento del carico o a un danno.

Il danno strutturale si aggrava nel tempo, continuando il circolo vizioso. Tuttavia nella discopatia degenerativa i fattori genetici potrebbero giocare un ruolo maggiore sia della nutrizione inadeguata che del danno meccanico. Studi condotti su gemelli hanno dimostrato che i fattori genetici possono contribuire fino al 70% del rischio individuale di discopatia degenerativa.

Ci sono diverse categorie di geni che contribuiscono alla degenerazione discale (malattia degenerativa discale), a seconda del ruolo che rivestono nella struttura del disco.

Ad esempio il polimorfismo dei geni degli aggrecani e di altre proteine può alterare la struttura del disco, mentre il polimorfismo dei geni per i mediatori catabolici e anticatabolici può favorire il catabolismo e contribuire così alla degenerazione del disco.

Tutti i fattori che alimentano la cascata infiammatoria possono contribuire alla degenerazione del disco, alterando l’equilibrio fra anabolismo e catabolismo. Il polimorfismo dei geni delle interleukine IL-1 e IL-6 e della ciclossigenasi 2 (COX-2) è stato associato alla malattia degenerativa discale. La COX-2 in particolare si pensa che contribuisca ad attivare la cascata del dolore nel disco degenerato.

Altri polimorfismi genetici per i quali è stato dimostrato un ruolo nella comparsa della malattia degenerativa discale sono quelli che codificano per il recettore per la vitamina D (VDR) e per il fattore di crescita GDF5.

Anche i fattori ambientali hanno un impatto sull’insorgenza della degenerazione discale. In passato si riteneva che il carico prolungato e ripetuto fosse il maggior fattore di rischio per la patologia degenerativa dei dischi, ma gli studi sui gemelli hanno dimostrato che il carico rappresenta soltanto un fattore di rischio minore.

Anche l’obesità è stata chiamata in causa come di rischio per la degenerazione discale. I risultati degli studi epidemiologici in merito sono controversi. Studi recenti suggeriscono che un indice di massa corporea (BMI) superiore a 25 rappresenti un fattore di rischio indipendente per la comparsa di degenerazione discale radiologicamente documentabile e che l’obesità in età giovanile si associ ad un elevato numero di dischi degenerati. 

Un’altra ipotesi è che la malattia cardiovascolare e l’aterosclerosi associate all’obesità siano un omologo dell’aterosclerosi dei vasi spinali che causa la degenerazione discale.  Altri studi indicano che l’obesità sia associata a livelli aumentati di IL-6 e al rilascio di mediatori pro-infiammatori che potrebbero contribuire a un meccanismo di degenerazione discale mediato dall’infiammazione.

Il fumo di sigaretta è l’unico agente chimico per cui sia stata dimostrata un’associazione tra esposizione e degenerazione discale. Studi sui gemelli hanno dimostrato differenze significative nell’entità della degenerazione discale alla risonanza magnetica, con percentuali più alte di dischi degenerati negli esposti al fumo di sigaretta. Si presume che il fumo agisca riducendo il flusso sanguigno dei piatti vertebrali. La teoria più accettata è che vi sia un’interazione fra il fumo di sigaretta e l’attivazione dei recettori muscarinici situati a livello dei piatti articolari.

Fattori biochimici

L’alterazione precoce più importante nel disco intervertebrale è l’aumentata degradazione degli aggrecani e di altri proteoglicani aggreganti. Questo cambiamento biochimico porta alla perdita di idratazione del disco, provocando un aggravamento del danno strutturale che il disco subisce nel tempo. La ridotta idratazione del nucleo polposo costringe l’anello fibroso a resistere direttamente alla compressione meccanica.

L’anello fibroso resiste alle forze tensive molto meglio che alle forze compressive. Quando si trova a dover sopportare forze compressive diventa rigido e debole, favorendo il processo degenerativo.

Il disco intervertebrale è caratterizzato da un’omeostasi tra sintesi ed eliminazione della matrice extracellulare che è regolata sia da agenti anabolici (fattori di crescita) sia catabolici (metalloproteinasi ecc.), oltre che dagli inibitori di ciascuno dei fattori. L’eccessivo stress può alterare l’omeostasi e contribuire alla cascata degenerativa. Lo squilibrio tra vie anabolica e catabolica spesso innesca una reazione infiammatoria che ha l’effetto di propagare ulteriormente il processo degenerativo. L’ambiente catabolico del disco intervertebrale porta alla formazione di prodotti di degradazione della matrice, che a loro volta inducono la produzione di mediatori infiammatori, portando all’ulteriore liberazione di prodotti di degradazione della matrice. 

Studi sulla malattia degenerativa discale (degenerazione discale) hanno mostrato differenze nell’espressione degli enzimi catabolici tra disco degenerato e non degenerato e questa espressione può essere modulata dall’immobilizzazione e dal sovraccarico meccanico. La produzione di metalloproteinasi 1 (MMP1) e altri enzimi catabolici si osservava a bassi livelli nel disco non degenerato, indicando un ruolo di queste molecole nell’omeostasi, mentre le metalloproteinasi 3 e 13 non si trovavano nel disco non degenerato. Nel disco degenerato la produzione di metalloproteinasi 1, 3 e 13 aumenta con il progredire della degenerazione. Questo aumento si accompagna all’aumento di alcuni inibitori di questi enzimi, ma non di altri.

Lo studio evidenziava come, nonostante vi fosse un aumento nell’espressione di numerose metalloproteinasi con la degenerazione discale, il fatto clinicamente più rilevante era il mancato incremento di specifici inibitori delle metalloproteinasi. L’incremento dell’espressione degli inibitori delle metalloproteinasi e il ristabilimento dell’equilibrio tra ambiente anabolico e catabolico potrebbe essere un possibile obiettivo terapeutico per inibire la degenerazione discale.

Invecchiamento e senescenza cellulare

Esiste un’associazione tra invecchiamento delle cellule del disco e lo sviluppo della malattia degenerativa discale.

L’invecchiamento cellulare si definisce come l’arresto irreversibile del ciclo cellulare causato da una varietà di stimoli esterni. Le cellule senescenti mostrano modificazioni morfologiche, si aggregano in grappoli, aumentano di dimensione, diventano piatte e vacuolizzate. Inoltre queste cellule non riescono a moltiplicarsi in risposta agli stimoli mitogeni e secernono in maniera aberrante citochine pro infiammatorie e proteasi che degradano la matrice extracellulare. La teoria più accettata sul ruolo dell’invecchiamento cellulare nella patologia degenerativa discale è che le cellule senescenti alterino l’equilibrio tra i processi anabolici e catabolici della matrice extracellulare a favore del catabolismo. La causa precisa che scatena la senescenza cellulare non è ancora stata esattamente identificata.

La cosiddetta “erosione dei telomeri” rappresenta uno dei  meccanismi che contribuisce alla degenerazione discale. Durante la moltiplicazione cellulare la lunghezza dei telomeri, che costituiscono la porzione terminale dei cromosomi, diventa sempre più corta, portando ad una incompleta replicazione del DNA. Questo attiva un meccanismo che porta la cellula alla senescenza, Esiste una correlazione significativa tra l’accorciamento dei telomeri e livelli avanzati di degenerazione discale.

Anche lo stress ossidativo nel microambiente discale può innescare la degenerazione del disco. Le cellule del nucleo polposo sono una fonte importante di specie reattive dell’ossigeno.  Alti livelli di queste sono state associate a livelli aumentati di degenerazione discale, inibizione della proliferazione delle cellule del nucleo polposo e attivazione del segnale di senescenza per indurre l’arresto della replicazione cellulare. La riduzione dell’apporto di nutrienti e di fattori di crescita (IGF-1, FGF, PDGF) a livello del disco ha l’effetto di aumentare il tasso di senescenza delle cellule discali. Nello specifico l’IGF-1 (fattore di crescita insulino-simile 1) è in grado di prevenire la senescenza cellulare indotta dal danno ossidativo. La disponibilità di fattori di crescita per le cellule discali è limitata dalla calcificazione dei piatti vertebrali.

È importante notare come il carico meccanico anomalo sia stato identificato come l’evento iniziale che culmina con l’amplificazione dei geni associati all’invecchiamento cellulare. Oltre a favorire l’invecchiamento cellulare attraverso questo meccanismo, è stato dimostrato che lo stress meccanico aumenta la produzione di specie reattive dell’ossigeno, che provocano degenerazione e invecchiamento cellulare attraverso un altro meccanismo.

Morte cellulare programmata (apoptosi)

L’invecchiamento e la senescenza cellulare non costituiscono l’unico meccanismo che porta ad una diminuzione delle cellule discali, contribuendo alla degenerazione del disco. Le cellule discali vanno incontro anche a morte cellulare programmata attraverso tre distinti meccanismi di apoptosi: mitocondriale, recettoriale e del reticolo endoplasmatico. L’integrità della matrice extracellulare gioca un ruolo vitale nel mantenimento del disco intervertebrale. I processi degenerativi all’interno della matrice portano ad un aumento del catabolismo, provocando diversi cambiamenti biochimici nelle cellule discali che conducono all’attivazione dei meccanismi di apoptosi.

I singoli meccanismi di apoptosi delle cellule discali tendono ad attivarsi a diversi livelli di degenerazione. Il meccanismo del reticolo endoplasmatico è quello più importante durante lo stadio iniziale di degenerazione discale, il meccanismo recettoriale è quello principale negli stadi lieve e moderato mentre il meccanismo mitocondriale prevale nello stadio più grave di degenerazione discale.

Potenziali futuri interventi terapeutici potrebbero essere mirati a ridurre l’apoptosi cellulare. Sarebbe importante a questo proposito identificare il meccanismo apoptotico maggiormente coinvolto prima di pianificare qualsiasi intervento terapeutico: ad esempio si è ipotizzato che gli inibitori degli enzimi detti caspasi possano diminuire l’entità della degenerazione e dell’apoptosi cellulare all’interno del disco.

Comprendere la patogenesi della malattia degenerativa discale potrebbe aiutarci a individuare specifici meccanismi nell’ambito della cascata degenerativa con l’obiettivo di prevenire o di curare la malattia. Esiste una moltitudine di possibilità terapeutiche che si potrebbero potenzialmente sfruttare per prevenire la malattia degenerativa discale, tra cui l’interruzione della cascata infiammatoria, l’aumento dell’anabolismo nella matrice extracellulare, la prevenzione dell’apoptosi e della senescenza cellulare, la terapia genica.

Possibili terapie della malattia degenerativa discale

Iniezione terapeutica di proteine

Le soluzioni di proteine possono essere iniettate direttamente nel disco allo scopo di stimolare la crescita cellulare e le risposte anaboliche, con l’obiettivo di interrompere la cascata degenerativa e di prevenire l’ulteriore degenerazione del disco.

È stato ben dimostrato come il disco intervertebrale sia in grado di rispondere a fattori di crescita esogeni. Specifici fattori di crescita che hanno mostrato di stimolare la crescita sia dell’osso che della cartilagine sono le proteine morfogeniche dell’osso (OP-1, BMP-14) e le citochine della famiglia del fattore di crescita trasformante beta (TGF β).

Uno studio sperimentale ha mostrato che l’iniezione intradiscale di OP-1 provocava un aumento del contenuto di proteoglicani del nucleo polposo e un aumento dell’altezza del disco. Questo studio è stato ripetuto ed è stato osservato anche un miglioramento della degenerazione dei dischi nelle immagini di risonanza magnetica.

Anche un altro studio ha dimostrato una risposta anabolica del disco dopo iniezione di OP-1, con recupero della normale morfologia discale.

L’iniezione di BMP-13 nel disco sembra prevenire la disidratazione del nucleo polposo.

Sono stati evidenziati anche effetti negativi dopo iniezione intradiscale di proteine: sembra che l’iniezione di BMP-2 provochi un aggravamento della degenerazione discale.

Il limite principale dell’iniezione intradiscale di proteine è rappresentato dalla breve durata dell’effetto terapeutico. Questo tipo di terapia, potenzialmente promettente, della degenerazione discale dovrebbe essere migliorato con la messa a punto di un vettore a rilascio prolungato, oppure con la terapia genica per aumentare la durata degli effetti benefici.

Terapia genica

La terapia genica consiste nell’indurre modificazioni nell’espressione genica all’interno del disco. Questi geni vengono introdotti nella cellula mediante iniezione diretta o per mezzo di un vettore virale. Tradizionalmente i vettori virali adoperati sono retrovirus, adenovirus e baclovirus. Sono in corso di sviluppo dei vettori non virali, ma al momento non sono neanche lontanamente paragonabili ai virus in termini di efficacia.

La principale controindicazione all’uso di un vettore retrovirale è il rischio di indurre mutazioni genetiche che possano causare neoplasie maligne.

L’utilizzo di un adenovirus ha il difetto di essere altamente immunogenico, provocando una riposta immunitaria maggiore nei confronti delle proteine transgeniche introdotte, che limiterebbe l’efficacia di questa tecnica.

Inoltre i vettori virali per la trasposizione genica richiedono un’elevata spesa per la preparazione, a fronte di rischi non ancora del tutto noti per i pazienti. Lo sviluppo di vettori non virali potrebbe in futuro ridurre i costi ed aumentare la sicurezza di questa tecnica per trattare efficacemente la malattia degenerativa discale.

Uno dei vettori non virali che sono in corso di sviluppo sono le microbolle. Questa tecnica utilizza delle microscopiche bolle per trasportare le sequenze di DNA che codificano le proteine di interesse e le introduce nella cellula provocando la comparsa di transitorie aperture nella membrana cellulare mediante l’esposizione agli ultrasuoni (sonoporazione).

Una strategia alternativa per la terapia genica intradiscale sarebbe focalizzarsi meno sull’induzione della cascata anabolica, che comporta un rilevante consumo di energia, e focalizzarsi maggiormente sulla riduzione dell’espressione di geni dannosi per l’equilibrio del disco, come il BMP-7, la disintegrina, le metalloproteinasi e altri.

In uno studio su cellule discali in coltura i geni codificati dal DNA introdotto mediante le microbolle venivano ancora espressi dopo 24 settimane.

In un altro studio l’aumentata espressione dell’inibitore delle metalloproteinasi si associava a ritardata degenerazione discale, mantenimento della normale morfologia dei condrociti e normalizzazione della matrice extracellulare.

Terapia cellulare

Le iniezioni terapeutiche di proteine e le tecniche di terapia genica perdono efficacia negli stadi più avanzati di degenerazione discale, a causa del minor numero di cellule disponibili a rispondere alle sollecitazioni.

La terapia cellulare è una buona strategia terapeutica nella degenerazione di medio grado, per aumentare il numero di cellule presenti nel disco, Diversi studi hanno dimostrato che sia le cellule discali autologhe che allogene sono in grado di sopravvivere all’interno del disco.

Uno studio ha dimostrato che i condrociti impiantati nel nucleo polposo contribuivano alla rigenerazione discale e prevenivano l’ulteriore degenerazione del disco.

Le cellule staminali mesenchimali sono in grado di differenziarsi in tutte le linee di cellule mesenchimali, compresi i condrociti e le cellule specifiche del disco. Questo fa di queste cellule l’opzione potenzialmente ideale per la riparazione del disco, dal momento che sono facili da ottenere e, una volta differenziate, saranno capaci di produrre proteoglicani e collagene per la matrice extracellulare del disco.

La differenziazione delle cellule staminali mesenchimali in cellule discali è dipendente dalla presenza dei fattori di crescita, dalla tensione di ossigeno e da una serie di altri fattori. Anche le cellule staminali derivate dal tessuto adiposo sembrano promettenti per l’ingegneria tessutale del disco intervertebrale.

Anche se i risultati sperimentali talvolta sono controversi, le cellule staminali mesenchimali in genere si sono rivelate superiori alle cellule differenziate nell’ottenere la rigenerazione del disco dopo iniezione si in vitro che in vivo.

Uno studio ha mostrato migliori risultati nella riparazione dei dischi usando condrociti articolari rispetto alle cellule staminali mesenchimali. L’ipotesi è che le cellule meglio differenziate siano in grado di sopravvivere meglio all’ischemia nell’ambiente discale.

Altri studi hanno evidenziato risultati equivalenti tra le due linee cellulari. Le cellule staminali mesenchimali potrebbero essere il sostituto ideale per le cellule discali grazie alla loro maggiore accessibilità e al successo di questo tipo di trattamento.

Un altro studio ha mostrato che una combinazione di entrambe queste linee cellulari porta ad un migliore risultato e ad una maggiore sopravvivenza delle cellule impiantate.

Entrambe queste linee cellulari possiedono un grade potenziale nel trattamento della malattia degenerativa discale.

Ingegneria tissutale

Una volta che il disco intervertebrale presenta degenerazione avanzata e grave perdita di cellularità resta poco margine per riparare il danno con impianti cellulari o iniezioni di proteine.

I sostituti funzionali per i tessuti discali danneggiati devono essere introdotti all’interno di un’impalcatura e si deve eseguire anche il condizionamento cellulare per mezzo di stimoli meccanici od elettrici.

I progressi dell’ingegneria tissutale hanno reso possibile la realizzazione di un disco intervertebrale totalmente impiantabile realizzato in laboratorio. Sia l’anello fibroso che il nucleo polposo del disco danneggiato vengono sostituiti dal nuovo disco, che viene innestato “a coda di topo” nello spazio discale. Il disco impiantato sembra possedere le stesse proprietà biomeccaniche e biochimiche del disco originale.

Ulteriori miglioramenti si sono osservati utilizzando il disco impiantabile in combinazione con le iniezioni di proteine e con la terapia genica.

Riparazione dell’anello fibroso

Un danno all’anello fibroso può innescare la cascata catabolica. Tuttavia le tecniche di somministrazione delle proteine terapeutiche o di terapia cellulare richiedono la puntura dell’anello fibroso. Uno studio clinico su pazienti sottoposti a discografia ha dimostrato che il danno causato all’anello fibroso dalla puntura con un ago sottile provoca un’accelerazione della degenerazione discale a 10 anni. Non sarebbe una soluzione ideale, nel tentativo di arrestare o invertire il processo degenerativo discale, causare un’ulteriore degenerazione iatrogena.

La riparazione dell’anello fibroso è stata tentata con tecniche di sutura o di anuloplastica , ma nessuna di queste due tecniche è riuscita ad ottenere un miglioramento della resistenza anulare.

Al momento nessuna tecnica di riparazione dell’anello fibroso si è dimostrata efficace in vivo. Nuove modalità sono attualmente allo studio. Le tecniche di riparazione dell’anello fibroso potrebbero potenzialmente ben funzionare in associazione con altre modalità di trattamento come la terapia cellulare o l’iniezione di proteine.

Studi clinici

Gli studi clinici sul trattamento biologico della malattia degenerativa discale sono limitati. Varie terapie che hanno mostrato efficacia in studi preclinici sono in attesa di essere sperimentate clinicamente per provare la loro efficacia e sicurezza per l’impiego umano.

Sono stati eseguiti diversi studi di iniezione di cellule staminali in dischi degenerati. L’iniezione di cellule staminali emopoietiche per dolore lombare discogeno non ha portato ad alcun miglioramento del dolore dopo un anno di follow up.

L’iniezione di cellule discali 3 mesi dopo un intervento di discectomia ha portato ad una riduzione del dolore lombare a 2 anni rispetto alla discectomia da sola. Inoltre l’altezza del disco era mantenuta e si verificava una minor incidenza di patologia del segmento adiacente nei pazienti sottoposti a trapianto di condrociti da disco autologo dopo discectomia, rispetto al gruppo sottoposto a sola discectomia.

Altri studi clinici hanno dimostrato benefici dall’iniezione di cellule staminali mesenchimali nel disco, con miglioramento sia del dolore che del quadro di risonanza magnetica.

Uno studio che prevedeva l’iniezione di condrociti allogenici nel disco di pazienti con discopatia degenerativa ad un solo livello ha mostrato il miglioramento del dolore a breve termine nella maggioranza dei pazienti e miglioramento del quadro di risonanza magnetica dopo 6 mesi in 10 pazienti su 13.

Tuttavia, nonostante questi risultati preliminari incoraggianti, rimangono molti ostacoli da superare prima di poter arrivare all’utilizzo clinico della terapia cellulare.

Il microambiente particolarmente inospitale del disco intervertebrale ha portato molti ricercatori ad essere scettici sul fatto che la terapia cellulare possa avere un impatto rilevante sul processo di degenerazione discale. Nelle cellule del nucleo polposo il fattore inducibile dall’ipossia è stabile indipendentemente dalla concentrazione di ossigeno, cosa che permette a queste cellule di sopravvivere in questo microambiente inospitale. Non è noto se le cellule impiantate acquisiscano questa proprietà delle cellule del nucleo polposo di adattarsi all’ambiente avascolare del disco.

Futuri obiettivi di ricerca sulle terapie cellulari potrebbero essere l’identificazione delle cellule più adatte all’impianto (cellule staminali emopoietiche, mesenchimali, condrociti, cellule della notocorda, cellule discali adulte ecc.) e lo sviluppo di nuovi strumenti diagnostici per la patologia degenerativa discale.

Ci sono dei risultati preliminari che hanno mostrato un possibile beneficio dall’iniezione intradiscale di PRP (plasma ricco di piastrine), con il 47% dei pazienti che riferivano un miglioramento del dolore di almeno il 50%.

Esistono diversi studi non pubblicati che esaminano l’effetto dei fattori di crescita GDF-5 e OP-1 sulla riparazione discale.

L’impianto di cellule staminali adulte della linea mesenchimale ha dato risultati promettenti: il 42% dei pazienti sottoposti al trattamento ha avuto una riduzione del dolore del 50% contro il 13% del placebo, ma anche questi dati non sono stati pubblicati.

Non esistono studi clinici in vivo eseguiti su esseri umani riguardo alla terapia genica. Gli studi in vitro hanno mostrato riduzione dell’espressione di metalloproteinasi nelle cellule discali dopo introduzione di un antagonista del recettore per l’IL-1 attraverso un vettore adenovirale.

Un altro studio in vitro su cellule umane transfettate con una combinazione dei fattori di crescita TGF-β1, IGF-1 e BMP-2 ha mostrato una sintesi di proteoglicani pari a 4,7 volte le cellule di controllo.

Prima di intraprendere qualsiasi studio in vivo o ex vivo (con successivo impianto cellulare) con vettori virali è necessario rispondere agli interrogativi sulla sicurezza dei vettori virali o se sia più sicuro ottimizzare dei vettori meno efficaci ma meno o per niente virulenti, come le microbolle descritte sopra.

Prospettive future

Una precisa comprensione dei meccanismi responsabili della degenerazione discale è indispensabile per progettare strategie di trattamento biologico e di riparazione del disco intervertebrale. Il grado di degenerazione del disco potrebbe essere il fattore chiave per decidere il tipo di intervento più appropriato, dal momento che le differenti strategie di trattamento hanno efficacia diversa ai differenti stadi della cascata degenerativa. Il processo della degenerazione discale è complesso e multifattoriale, pertanto la soluzione per contrastare questo processo dovrà essere altrettanto complessa, se non di più, e verosimilmente comprendere più soluzioni a seconda del fenotipo e della progressione della malattia. Future indagini dovrebbero aumentare il numero di studi in vivo sull’uomo con tutte le modalità di trattamento disponibili.

Dovrebbe esserci anche una ricerca continua per chiarire meglio i meccanismi di trasmissione intracellulare, al fine di consentire una regolazione sempre più mirata delle cellule discali. Via via che la nostra capacità di comprensione del processo di degenerazione discale aumenta, nuove modalità di trattamento potranno essere identificate e sviluppate e le modalità di trattamento già conosciute potranno essere ottimizzate.

Queste nuove terapie richiederanno dei rigorosi test, che potranno poi avanzare fino alla sperimentazione clinica, per valutare l’efficacia e l’impatto nel contrastare la degenerazione discale. Le terapie biologiche rimangono una possibilità promettente di affrontare il complesso problema della patologia degenerativa dei dischi intervertebrali.